domenica, ottobre 28, 2007


Leggende della Laguna
La botte di Sant`Albano

Per questa storia siamo a Murano, nella Basilica veneto-bizantina dei Santi Maria e Donato. La tradizione popolare vuole che la sua origine sia legata ad un voto fatto da Ottone I il Grande, quando implorava il cielo di scampare ad una tremenda burrasca che sorprese in mare il naviglio su cui navigava.La leggenda narra che fu edidicata tra il 950 e il 957, in un campo di gigli rossi.
Dando le spalle al portone d`entrata e guardando la parete della navata centrale che sovrasta il colonnato di sinistra, si noterà un leone di San Marco accompagnato da due stemmi e da un oggetto bizzarro: una piccola botte, nota anche come "El botasso de Sant`Alban".


La leggenda racconta che la botticella fose reliquia appartenente agli abitani dell`isola di Burano (buranei) e che da costoro fosse custodita con ogni cura. Questa botte, infatti, aveva una peculiare caratteristica: posta a lato delle reliquie di Sant`Albano, giunte in laguna nel 1067, ess non smettesse di spillare vino.I muranei erano, si può ben capire, invidiosissimi di questa fortuna capitata ai "vicini d`isola". Burano e Murano, infatti, vivono da sempre una rivalità che si può ben dire abbia radici molto lontane nel tempo.Fu, dunque, assemblato in quel di Murano una sorta di banda d`incursione che, nottetempo, sottrasse la celebre botticella ai buranei, ben decisi a godere loro di quanto la botticella spargeva.

Tuttavia, una volta sbarcati a Murano, ci si accorse subito che la piccola botte non aveva più alcuna intenzione di spillare alcunchè. Nè i muranei ebbero sufficiente tempo per pensare come si poteva forzare la miracolosa botticella a fare il proprio lavoro, che già, armate le barche ed imbracciati i remi, i buranei stavano giungendo alle porte di Murano per reclamare il maltolto.
"Non ne godiamo noi? Non ne godrete nemmeno voi!" fu il pensiero dei muranei che, servendosi si una scala, murarono la piccola botte nella basilica, lavvode sulla parete ne è disegnata l`effige. Invitarono quindi i buranei ad andaserla a prendere se ci tenevano tanto.

NB. dietro l`altare di questa chiesa si può ammirare un`altra reliquia molto singolare. Si narra, infatti che Donato sconfiggesse con un solo segno di croce un gran Drago. I resti mortali della terribile creatura, da allora, riposano appunto dietro l`altare della basilica: si tratterebbe di alcune costole e dei resti di un gigantesco dente.

domenica, ottobre 21, 2007

Leggende della Laguna





El Gato de Ciòsa











Da sempre la borghesia e la nobiltà (sebbene decaduta)veneziana, un po’ con la puzza sotto il naso, hanno la tendenza a trattare dall’alto in basso i poveri cristi che non hanno ascendenze cittadine, sottointeso veneziane. Particolari sfottò sono stati riservati, durante gli anni, agli abitanti di Chioggia, città lagunare che una rivalità lunga secoli oppone a Venezia.



Il più famoso è quello relativo al “gato de Ciosa” (gatto di Chioggia), come viene ancora chiamato il piccolo leone marciano posto sulla colonna proprio in riva alla laguna, nella Piazza Vigo, al quale questi perdigiorno veneziani portavano, per dileggio, le lische di pesce per poi scappare in velocità, con le barche sulle quali erano arrivati, inseguiti da arrabbiati chioggiotti.

Leone in attesa


In realtà la storia del Gato de Ciòsa è un poco contesa, esistono almeno due versioni (una veneziana e una chioggiotta, ovviamente) sull'origine del micio. Secondo la versione chioggiotta, infatti, la cittadina del sud della laguna era da sempre in contesa con Venezia, ma come in tutte le città venete dominate dalla Serenissima non poteva mancare l'emblema della Repubblica: il leone. Solo che i chioggiotti, in scherno ai dominatori, realizzarono la statua con le sembianze di un gatto: el gato de Ciòsa domina ancora oggi a Vigo, alla fine di Corso del Popolo, dove ci si può imbarcare per la lunghissima Isola di Pellestrina. Nonostante ciò è poco salutare farsi sentir da un chioggiotto chiamar "Gatto" il loro leone...



I Veneziani, giustamente, raccontano un'altra storia.



Si narra, infatti, che un giorno un gatto veneziano, stanco di subire le angherie dei leoni alati di San Marco, scappasse a Chioggia inseguito da quattro di quei leoni. Il gatto fuggì fino ad arrampicarsi nell'unico luogo in cui potesse esser salvo: la colonna in piazza Vigo. Infatti la colonna era così alta ed il capitello in cima così piccino, che i leoni non riuscivano a raggiungerlo per agguantarlo, nonostante le ali.Fu così che i leoni si sedettero al limitar del ponte Vigo, aspettando che il gatto scendesse. Tanto attesero che perdettero le ali e si fecero di pietra, come ancor oggi si può ben vedere.

lunedì, ottobre 15, 2007

Storie della Laguna e di Venezia


Un 2 di novembre a Chioggia

Per la storia di oggi ci spostiamo decisamente nella propaggine più meridionale della laguna veneta: Chioggia, un piccolo paese di pescatori.

Era un 2 novembre di tanti anni fa e stava albeggiando. Il cielo si schiariva progressivamente di quella luce pallida che colorano il principiar del giorno nei mesi di metà autunno. Un pescatore stava andando alla sua barca per sistemare il pesce da vendere al mercato. Era sereno: la notte di Ognissanti e quella dei Morti eran passate, e con loro le tetre inquietudini e i lugubri racconti che vi si narravano.


Camminava di buona lena per le calli di Chioggia, quando il suo andare fu interrotto da un singhiozzare sommesso. Corrucciò la fronte e si mise in ascolto, fermandosi, per esser certo di quel che udiva. Sì! Qualcuno piangeva. Voltò, quindi, l`angolo per accertarsi di chi fosse costui e trovò, davanti al capitello della Madonna, un bimbo sconosciuto in paese, un bimbo che il pescatore non aveva mai visto. Il piccolo stava piangendo davanti al capitello votivo.

Il pescatore si fermò, lo guardò e con voce pietosa domandò: "Che hai bambino, perchè piangi?" Il Bimbo non rispose e continuò a singhiozzare. "Vuoi che ti accompagno a casa dalla mamma?" chiese allora il buon pescatore. Di nuovo il bimbo non rispose, ma si asciugò gli occhi eallungo la mano a prender quella che il pescatore gli offriva. In silenzio, poi, si diresse con lui verso il ponte di Vigo.

Quando furono sul ponte, mentre camminavano, il pescatore avvertì la stretta del bambino farsi sempre più forte, che quasi gli faceva male la mano. "Hey bambino..che fai?" Nessuna risposta, le strade erano ancora deserte e la manina del bimbo si serrava sempre più stretta fino a far veramente male. Il pescatore guardò allora il bambino, che, con forza quasi sovrumana, lo stava trascinando giù dal ponte e giù per quegli scalini che, a margine delle fondamenta, consentono una più agile discesa alle barche. Il bambino aveva gli occhi quasi del tutto bianchi, uno sguardo che faceva rabbrividire il pescatore, mentre continuava ad esser trascinato verso l`acqua.

Già l`acqua, discendendo gli scalini viscidi di alghe, arrivava alle caviglie dell`uomo, che cercava d`indietreggiare e di liberarsi inutilmente da quella stretta poderosa e da quella forza, impensabile in un bimbo, che lo strascinava giù; quando, da una chiesa vicina, si udirono suonar le campane della prima messa.

La mano del bimbo si slacciò allora da quella del pescatore. Il piccolo volse allora i suoi occhi di spirito sul povero malcapitato e con voce sepolcrale gli disse: "Anima vivente, sei stato fortunato: se non fossero suonate le campane, l`acqua della laguna sarebbe stata la tua tomba." Fu allora che il pescatore, fissando drittamente quegli occhi ed udendo quella voce d`oltretomba, realizzò di trovarsi al cospetto di un`anima del Purgatorio, indietreggiò di pochi passi, fin a ritornare sulla fondamenta e lì, per lo sgomento, svenne.

Si riprese soccorso da alcuni passanti che, andando alla Santa messa, lo videro svenuto nel mezzo della fondamenta, e a loro narrò la sua trista avventura.
Da quella volta, però, si guardò bene dall`andar a lavorare nel giorno dei morti, preferendo rimaner a casa a pregar per i defunti.

giovedì, ottobre 11, 2007

Misteri e leggende della Laguna veneziana





...Ancora sulla Viglia del Giorno dei Morti








Era la notte precedente il giorno dei Morti, il 2 novembre, e due vecchi pescatori si trovarono ancora intenti in laguna ad armeggiar con le loro reti.Essendo alla vigilia di un giorno santo e anche per via delle molte leggende che raccontavano le truci punizioni occorse ai trasgressori dell`antica usanza, decisero di riporre le reti e rincasare prima di mezzanotte. Così alle undici di notte, concitati e frettolosi cominciarono a ritirare le lenze in barca.



Uno dei due sentì una lenza molto pesante. Cominciò a trarla in barca molto lentamente, onde si spezzasse la lenza e andasse perso anche quello che prometteva di essere un lauto bottino. Immaginatevi però la sorpresa quando, alltro capo del filo, vide riemergere dall`acqua il coperchio di una cassa da morto.
Impauriti e avviliti per l`accaduto, i due rinunciarono a rigettare in laguna il macabro ritrovamente, anche un po` per superstizione, e lo sistemarono in via provvisoria sulla prua della barca.



Maneggiando il coperchio della bara, però, s`accorgero che aggrappato sul retro c`era un enorme polpo di dimensioni enormi, come non se ne erano mai visti. Si rallegrarono al pensiero che la loro pesca non fosse stata del tutto infruttuosa e si misero ai remi per tornar verso casa.
Ad un certo punto il più anziano, spossato dalla fatica, si distese sul fondo della barca per schiacciare un pisolino, lasciando ambo i remi al compagno. Non fosse che fu svegliato di soprassalto dal polpo che gli si era avvinghiato con i tentacoli al viso, rischiando di soffocarlo. Il mostro tentacoluto fu staccato e riposto velocemente a prua, all`interno della barca, ma da lì, di nuovo, mosse i tentacoli verso l`uomo aggrappandosi, misterosamente, al collo e al viso dell`uomo più volte.



Scossi ed intimporiti, gli anziani pescatori giunti al porto, non esitarono a raccontare ai più giovani, incontrati sulla riva, l`inquietante avventura vissuta. Questi, incuriositi, presero il polpo tra le mani e, sentendolo rigido e stranamente rigonfio, lo tagliarono a mezzo. Lo stupore fu generale quando, dalla testa del polipo saltò fuori... un teschio umano.



Un ammonimento che veniva direttamente dalle anime, affinchè venisse rispettato il giorno a loro dedicato.

sabato, ottobre 06, 2007

Storie della laguna e di Venezia





Mai pescare in certe notti

La Laguna Sud è, da sempre, un luogo in cui s`incontrano nei loro bragozzi i pescatori di venzia e quelli di Chioggia. Ogni giorno, all`imbrunire, da secoli, i pescatori escono a sfidare le onde in cui il sale si mescola all`alcqua dolce, per portare un po` di pesce a riva, per l`alba del giorno a seguire... Tutti i giorni e tutte le notti, là, tra le valli da pesca ed i casoni (piccoli capanni di canne dispersi nelle piccole zolle di terra dimentacata che emergono sporadici tra le acque lagunari)...



...Tutti i giorni e tutte le notti... tranne DUE...



Non si troverà, infatti, in tutta Venezia o in tutta Chioggia un solo pescatore disposto ad uscire a pescare nella notte di Ognissanti o in quella dei Morti.Se altrove, nel mondo, la notte tra il 31 di ottobre ed il primo di novembre è notte dedicata alla festa per esorcizzare le paure degli uomini, nella laguna è usanza stare ben chiusi in casa, con la propria famiglia, se ci si tiene alla barca e alla vita.



Sibili, rumori, voci, urla, sussurri: le acque della laguna, durante la notte degli spiriti, si animano di ombre misteriose, inquiete presenze e, qualcuno dice, lugubri processioni di lumini a pelo d`acqua.




Quella sera di Ognissanti, di almeno due secoli fa, c`era una fitta nebbia che appesantiva l`aria delle valli, come una grigia coperta posatasi in reve silenzio sopra le acque pescose. Erano due fratelli e se ne infischiavano delle leggende di fantasmi, di demoni e di diavoli: decisero di uscire in laguna a calare i cogòi, le tipiche reti ad imbuti.Calate le reti andarono a ripararsi presso il casòn d`un loro amicio ed ivi, si sedettero tranquilli ad attendere, ed accesero le loro pipe...



All`improvviso, nonostante la nebbia, sentirono dei tuoni rombare nella notte e, subito dopo, uno scroscio di pioggia violento. "Bene! -disse ottimista uno dei due- chissà quanto pesce prenderemo!"Così attesero un`oretta ed uscirono alla pioggia. Salirono in barca e andarono a controllare le loro reti. Con grande meraviglia le scoprirono completamente vuote; pensarono d`aver agito con far precipitoso e se ne tornarno al casòn.



Erano talmente fradici che si tolsero i giacconi e si avvicinarono al fuoco per riscaldarsi.Uscirono di nuovo a notte inoltrata e tornarono nella barca a controllar i cogòi. Ancora nulla, dentro le loro reti neppure un piccolo gambero. Uno dei due allora fu colto dal sospetto: "Sai cosa penso? Che non stiamo pescando nulla perchè è la notte dei santi..." L`altro fratello rise beffardamente.



Tornarono dunque a scaldarsi al casòn quando, ad un tratto, da sotto la porta filtrò una strana luce vibrante. Uno dei due andò a guardare e tra gli interstizi delle canne, di cui era composta la porta, vide due torce accese nel buio. Si fece coraggio ed aprì la porta... Dietro le due torce non v`era altro che un`ombra enorme di cui i fuochi parevan esser gli occhi brucianti...



Si narra che i due fratelli tentarono la fuga, ma l`indomani mattina furon trovati morti sulla soglia del casòn, agghiacciati e rigidi, con gli occhi sbarrati. La punizione per esser usciti a pescare la notte dei Santi.

giovedì, settembre 27, 2007

Misteri e Storie della Laguna





Un`anima venduta



Si dice che la storia prese il suo corso tra la fine del 1800 e l`inizio del 1900, quando i traghetti, a Venezia, non erano a motore, ma ancora governati da infaticabili uomini.
Costui, il cui nome è andato perso attraverso lo scorrere del tempo, non era più giovane ed oramai gli sembravano secoli dacchè aveva cominciato a òlavorare come traghettatore: su e giù da Burano a Treporti, d`estate e d`inverno, con a nebbia e con il sole, a far forza sul remo.Logorato e stanco del proprio lavoro, diverse volte i suoi passeggeri gli avevano sentito dire che avrebbe fatto qualsiasi cosa per cambiar vita, anche vender l`anima.
Accadde che in una mattina di nebbia, deserta di passeggeri, salisse sul traghetto un uomo compito, vestito tutto di nero e molto elegante che s`accostò al traghettatore e con voce molto cortese disse: "Sono venuto a rammentarla la sua richiesta""Quale?" ribattè perplesso il traghettatore. "Quella di vender l`anima financo al diavolo per di cambiar vita..."







Lì per lì il traghettatore pensò ad uno scherzo di cattivo gusto e inquieto cominciò a negare di aver mai fatto una simile richiesta. L`uomo in nero non battè ciglio, anzi cominciò ad elencare con far molto puntuale e professionale tutti i vantagggi a cui l`uomo sarebbe andato incontro, cambiando vita. Tanto che alla fine, il traghettatore si convinse pensando che se l`uomo in nero fosse stato un cialtrone non sarebbe cambiato nulla, ma se diceva il vero... magari qualcosa sarebbe davvero cambiato e, con quel lavoro, non aveva nulla da perdere. Firmò la pergamena, il contratto che l`uomo in nero gli porgeva.



Di lì a pocho tempo la sua vita cominciò a mutar registro: alcuni piccoli investimenti cominciarono a fruttare, tanto che gli permisero di smettere quel lavoro e rilevare la barca su cui per tanti anni aveva fatto da tragettatore, assumendo un giovane al posto suo. Cambiò professione, comprò dei terreni, cominciò a prestar soldi a tassi d`usura.Divenne ricco e pur, man mano che il tempo scorrev, diventava sempre più solo: perse gli amici, i parenti si allontanarono, disconoscendo in lui l`usuraio che era diventato.



Passarono gli anni, al punto che dimenticò il giorno in cui ebbe firmato il suo diabolico contratto. Contratto di cui mai, comunque, aveva fatto parola con alcuno.



Un giorno il giovane che aveva assunto come traghettatore cadde malato e, così, un po` per nostalgia, un po` per non perder denari, l`uomo si rimise al remo. Era un giorno di inizio autunno. Lavorò fino al tramonto. Quando, giunto a Burano, nella nebbia crescente, stava per smettere il turno, un uomo distinto, vestito di nero, chiese d`esser portato a Treporti.
Il vecchio traghettatore cominciò a remare, mentre la sera nebbiosa e scura stendeva il suo velo sulla laguna. Durante il viaggio non una parola, fu solo a destinazione che il distinto signore sibilò: "Sono venuto a ricordarle una cosa..." tendendogli una vecchia pergamena consunta dal tempo su cui troneggiava la firma sanguigna del vecchio traghettatore.



Il traghettatore non capì subito, ma non ci volle molto quando da sotto i pantaloni eleganti del signore in nero spuntarono gli zoccoli da caprone, e non ebbe che il tempo di fissare gli occhi propri in quelli del diavolo... ma non aveva altra anima da raccomandare che la propria.
Il giorno dopo fu ritrovata, portata alla deriva, la barca vuota: dell`uomo nessuna traccia. Tuttavia una stranezza: sul legno, verso la prua, incise a fuoco sul camminamento le impronte di due zoccoli. Si dice che il pezzo di legno marchiato sia ancora conservato in una chiesa di Venezia... ma la memoria ha smarrito il ricordo di quale essa sia.

martedì, luglio 24, 2007

Storie e misteri di Venezia

Il ponte de le tette








A Venezia, dalle parti di Rialto, esiste un ponte dal nome direi peculiare: il ponte de le tette.


Con precisione esso è situato a San Cassiano, in zona delle Carampane e unisce il sestiere di S.anta Croce con quello di San Polo.


Il nome del ponte in questione non è una casualità, bensì è legato alla storia cinquecentesca della città e, più in generale, al periodo in cui la Controrifoma, dopo il Concilio di Trento, imperversò in tutta Europa. La cosiddetta Controriforma, infatti, voleva essere per così dire la risposta cattolica alla riforma luterana e protestante del Nord-Europa, e aveva come scopo quello di riportare l'Ecclesia di allora su terreni più morigerati e rispettosi di quella che doveva essere la sua vocazione base.











La Controriforma si impose con particolare austerità nella Repubblica della Serenissima, terra in cui i costumi si erano fatti molto liberali nel corso dei secoli -cosa capibile per una città che era, all'epoca, un crogiuolo di gente che andava e veniva da e per tutto il Mediterraneo.


Nello specifico, si narra, che all'epoca il problema principe di Venezia fosse la sodomia. un problema sentito al punto che, per ordinanza dogale, le prostitute furono obbligate a concentrarsi in una zona ben definita della città -appunto attorno a quel ponte. Inoltre fu fatto obbligo per legge che, per attirare la clientela esse dovessero sedere sulla finestra a seno nudo e con le gambe penzoloni per mostrare tutte le loro grazie, o ancor più, dovessero stare completamente nude davanti alle finestre: il tutto proprio sopra il ponte in questione. Lo scopo era quello di incoraggiare, da un lato, gli uomini ad accedere ad un rapporto "secondo natura", dall'altro esser sicuri che chi si occupava del lavoro più vecchio del mondo (com'è spesso definito) fosse, senz'ombra di dubbio, una donna.





Si narra, infatti, che potessero stare tranquillamente in questi atteggiamenti grazie a un'ordinanza del XV secolo che addirittura le incoraggiava a mostrarsi per attirare i clienti. Questo per distogliere la popolazione maschile da un'ondata di omosessualità che era diventata un problema di stato. Si trovano infatti, tra i fascicoli dei processi più famosi, moltissimi casi contro omosessuali o per violenze "contro natura". Ad esempio, tale Francesco Cercato fu impiccato per sodomia fra le colonne della piazzetta nel 1480 e tale Francesco Fabrizio, prete e poeta, fu decapitato e bruciato nel 1545 per il vizio "inenarrabile".





Comunque sia, sembra che l'omosessualità fosse molto diffusa nella Venezia del Cinquecento, tanto da indurre le prostitute, nel 1511, a inviare una supplica all'allora patriarca Antonio Contarini affinchè facesse qualcosa in merito, perchè sembra non avessero piì clienti. Forse la vera ragione della loro crisi economica era però un'altra: nel 1509 a Venezia esistevano 11.654 cortigiane; con tale abbondanza di offerta sembra più logico pensare che i guadagni pro capite calassero molto.

venerdì, luglio 20, 2007

Misteri e storie di Venezia

San Marco e le sue reliquie


Per i veneziani il 25 aprile è ricorrenza assai più antica dell'attuale festa nazionale. Vi cade infatti il giorno di San Marco, patrono della città.


Storia tramanda che le cui reliquie, che si trovavano in terra islamica ad Alessandria d'Egitto, furono avventurosamente traslate a Venezia nell'anno 828. In parole spiccie si narra che due leggendari mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, rubassero le reliquie del santo.
Si tramanda che per trafugare ai Musulmani il prezioso corpo (l'Islam riconosce e venera a sua volta Cristo e i Santi), i due astuti mercanti lo abbiano nascosto sotto una partita di carne di maiale, che passò senza ispezione la dogana a causa del noto disgusto per questa derrata imposto ai seguaci del Profeta.



Va ricordato che in quei tempi (e in parte ancor oggi) le reliquie erano un potente aggregatore sociale; inoltre attiravano pellegrini e contribuivano a innalzare il numero della popolazione nelle città, effetto molto importante per un urbanesimo agli albori che stentava ad affermarsi sulle popolazioni prevalentemente rurali.
Ogni reliquia era quindi bene accetta assieme a chi la recava e quella di San Marco lo fu particolarmente. Si racconta, infatti, che proprio quel Santo, mentre era in vita, avrebbe evangelizzato le genti venete divenendone Patrono ed Emblema sotto forma di leone alato.



Alato, armato di spada e munito di un libro sul quale, in tempo di pace, si poteva leggere la frase Pax Tibi Marce Evangelista Meus (Pace a Te o Marco Mio Evangelista); un libro che veniva minacciosamente chiuso quando la spada, anziché cristianamente discriminare il bene dal male, si arrossava di sangue guerriero. Una statua del Leone con il Libro aperto è presente in tutti i domini che furono della Serenissima, a sancirne il patto di alleanza.
La commemorazione è oggi ridotta al solo 25 aprile, data della morte del Santo, ma ai tempi della Serenissima si festeggiava anche il 31 gennaio (dies translationis corporis) e il 25 giugno, giorno in cui nel 1094 dogante Vitale Falier avvenne il ritrovamento delle reliquie del Santo nella Basilica di S.Marco.

venerdì, luglio 13, 2007

Misteri e storie di Venezia





I Templari ed il Santo Graal





In epoca templare Venezia era uno dei porti più importanti, non solo dal punto di vista commerciale. Infatti, da lì confluivano pellegrini e crociati diretti in Terrasanta e in altri luoghi di pellegrinaggio come Roma e San Giacomo di Compostela.
I rapporti di alleanza tra Templari e veneziani rendevano quanto mai importanti da un punto di vista strategico le precettorie templari a Venezia.
Per non intralciare il commercio della Serenissima Repubblica furono allestite navi solo per il trasporto dei pellegrini. Inoltre Venezia istituì una speciale magistratura e un “Codex Peregrinorum” per tutelare i viandanti e ben 135 ospitali furono attivati a Venezia.



La repubblica di Venezia disponendo di una grande flotta navale era l’unica potenza in grado di fornire le navi per trasportare cavalieri, cavalli e viveri fino la Terrasanta. Fu così che la Serenissima guidata dal Doge Enrico Dandolo divenne la protagonista della IV^ Crociata, indetta da Papa Innocenzo III.
Quando i Crociati giunsero a Venezia fecero le loro richieste. Il doge Enrico Dandolo, dopo aver consultato il Consiglio dei Dieci, approvò il patto e inviò il trattato al Papa Innocenzo III affinché lo ratificasse.
Tuttavia, i veneziani si erano assunti un impegno molto gravoso dal punto di vista economico e i crociati non si erano altrettanto attenuti alle scadenze di pagamento. Ormai i crociati iniziarono a confluire nell’Isola del Lido, Dandolo minacciò di sequestrarli fino al pagamento del debito, ma non fu sufficiente per recuperare la somma di denaro. Fu così che il doge propose, appoggiato dai crociati, di recuperare Zara e altri territori dell’Adriatico, da tempo contese dai re d’Ungheria.



L’8 ottobre 1202 la flotta salpò alla volta di Zara, ma prima riconquistò Trieste, Muggia e Umago. Arrivati a Zara dopo cinque giorni di resistenza la città dovette arrendersi. Questo costò ai veneziani la scomunica da parte del papa. La flotta ripartirà alla volta di Costantinopoli.
Il 12 aprile 1204 i crociati presero d’assalto la città, ed elessero imperatore Baldovino IX delle Fiandre. Per tre giorni la città verrà incendiata e saccheggiata, molti tesori e reliquie verranno portati in occidente, ai veneziani spetterà più di un terzo della città, ma costerà la vita al doge Enrico Dandolo che sarà sepolto presso la Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli.






Tra i vari tesori e le varie reliquie di cui i veneziani fecero incetta a Bisanzio, durante questa IV^ Crociata si ricordano, in particolare i quattro cavalli in rame presenti sulla Basilica di San Marco e che tradizione vuole avessero al posto degli occhi degli splendidi rubini. Si sa ancora che da Costantinopoli sarebbe provenuta la Corona di Spine di Gesù che Luigi IX di Francia riuscì a sottrarre alla città per portarla in Francia, presso la Sainte Chapelle. Si mormora, infine, che anche il Graal, come bottino di quella crociata, volgesse il suo mistico cammino verso Venezia.



La tradizione lo vuole nascosto nel trono di San Pietro, il sedile ove si sarebbe davvero seduto l’Apostolo durante i suoi anni ad Antiochia. Il trono è costituito da una stele funeraria mussulmana e decorato con i versetti del Corano oggi presente nella chiesa di San Pietro in Castello.









Si narra che in qualche maniera poi sarebbe stato trasferito successivamente a Bari, città legata a quella veneta da interessanti tradizioni comuni come il santo Nicola ,di cui due città si spartirono le sacre reliquie. Alcune tradizioni locali, poi, vogliono che nella chiesa di San Barnaba fosse stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato francese dal nome di Nicodemè de Besant-Mesurier, legato alla vicenda della traslazione della mistica coppa ritrovato nella zona nel 1612. In realtà non sono mai stati trovati documenti che parlassero di questo cavaliere.

lunedì, luglio 02, 2007

Storie di Venezia...


Lo sposalizio col mare

Il giorno dell`Ascensione a maggio a Venezia si celebra la Festa de la Sensa. E` una festa di origini antichissime che celebra il matrimonio di Venezia col mare.Una volta era il Doge che, a bordo del Bucintoro (la barca regale), seguito da un corteo d´imbarcazioni, si portava all´imboccatura di porto del Lido; là il Vescovo di Olivolo (Castello) benediceva le acque marine in segno di pace e gratitudine. Al giorno d´oggi la Festa della Sensa continua a sopravvivere seppur in forma minore. Il Sindaco nel giorno dell´Ascensione raggiunge, a bordo della "BIssona Serenissima" usata nel Corteo della Regata Storica, la bocca di porto di San Nicolò al Lido per lanciare, affiancato dalle barche a remi delle Società di Voga veneziane, la vera d´oro che ancor oggi simboleggia l´eterna unione tra Venezia e il Mare.


La Festa della Sensa commemora due vittorie veneziane, lontane una dall`altra di quasi due secoli: una navale ed una diplomatica, comunque legate tra loro.
La prima risale all`impresa del Doge Pietro Orseolo II , partito il 9 maggio dell`anno 1000 , giorno dell`Ascensione, in aiuto delle popolazioni della Dalmazia minacciate dagli Slavi. Questo è l`inizio del lento cammino intrapreso da Venezia per il dominio del Mare Adriatico, al quale tendeva fin dalle sue origini non tanto per motivi di conquista, quanto per ragioni di vita. L`arresto dell` espansione slava permise alla Repubblica di giungere questo suo obiettivo ed il possesso territoriale diventa ormai superfluo, tanto che le città dalmate danno ormai blandi tributi, regolati secondo le proprie risorse naturali ed economiche.
A ricordo dell`ardua impresa si dà inizio alla celebrazione della Festa della Sensa, limitata alla sola benedizione del Mare: è un rito esclusivamente propiziatorio, dal cerimoniale semplice e modesto.


Quest`ultimo diviene più complesso e sfarzoso quando con la stessa festa si ricorda l`altra vittoria veneziana, quella diplomatica. Siamo ora nell`anno 1177, le due massime autorità europee firmano a Venezia la pace che pone fine alla secolare lotta tra Papato e Impero: mediatore tra Papa Alessandro III e Federico Barbarossa è il doge Sebastiano Ziani.
Il Papa riconoscente ai veneziani, colma la città di doni e consegna al Doge Ziani un anello benedetto pronunciando le parole: " Ricevilo in pegno della sovranità che Voi ed i successori Vostri avrete perpetuamente sul Mare" e, secondo alcuni letterati del tempo, si precisava anche un invito a nozze "... lo sposasse lo Mar si come l`omo sposa la dona per esser so signor" . E così l`iniziale visita al mare e la sua benedizione si trasformano in un atto di investitura e di possesso: ormai il dominio veneziano dell`Adriatico è riconosciuto dalle due massime potenze europee del tempo. Da allora il giorno de la Sensa viene gettata la vera d`oro al mare a sancire lo sposalizio benedetto dal Papa.


Inoltre Papa Alessandro III concesse indulgenze a tutti coloro che avessero visitato la Basilica di San Marco negli otto giorni dopo la Festa della Sensa. Questo fatto portò in citta` una folla da ogni dove, tanto che la Repubblica, con mossa accorta ed intelligente, decise fin dal 1180 di istituire una fiera campionaria dove venivano esposti i prodotti del migliore artigianato locale insieme alle pregiate merci d`Oriente, e proprio per l`importanza economico-sociale che la fiera racchiudeva in sè, si scelse come luogo d`esposizione lo spazio prestigioso di Piazza San Marco. Quando si dice che i veneziani c`hanno il commercio nel sangue!


All’inizio le merci erano esposte in baracche di legno riparate da tende; dal 1307 si decide di chiudere l’esposizione in una specie di recinto del quale si occupa lo stesso Sansovino nel 1534. Nel 1777 il recinto è trasformato dall’architetto Bernardino Maccaruzzi in un grande edificio di legno a forma ellittica, diviso in quattro settori, a doppio porticato: nel porticato interno, al riparo dalle intemperie, le merci più rare e fini, in quello esterno i prodotti dell’artigianato minore. Questa costruzione era ammirata in modo particolare per la praticità del montaggio, scomponibile in tre giorni e ricostruibile in cinque; ma le sue colonne, rivestite di carta e dipinte a simulare il marmo, suggeriscono al popolo questo epigramma: "Archi de legno e colonnami in carta, idee de Roma e povertà de Sparta".

venerdì, giugno 29, 2007

Misteri e storie di Venezia...

La festa del Bocòlo...2

Sempre sulla Tradizione di donare un bocciolo di rosa il giorno di San Marco alla propria bella: vi avevo detto che di storie ce n`erano due!
Secondo l`altra leggenda la tradizione del bocolo discende invece dal roseto che nasceva accanto la tomba dell`Evangelista. Il roseto sarebbe stato donato a un marinaio della Giudecca di nome Basilio quale premio per la sua grande collaborazione nella trafugazione delle spoglie del Santo.
Preso e piantato nel giardino della sua casa il roseto alla morte di Basilio divenne il confine della proprietà suddivisa tra i due figli. Avvenne in seguito una rottura dell`armonia tra i due rami della famiglia (fatto che sempre secondo le narrazioni fu causa anche di un omicidio), e la pianta smise di fiorire.
Un 25 aprile di molti anni dopo nacque amore a prima vista tra una fanciulla discendente da uno dei due rami e un giovane dell`altro ramo familiare. I due giovani si innamorarono guardandosi attraverso il roseto che separava i due orti.
Il roseto accompagnò lo sbocciare dell`amore tra parti nemiche coprendosi di boccoli rossi, e il giovane cogliendone uno lo donò alla fanciulla.
In ricordo di questo amore a lieto fine, che avrebbe restituito la pace tra le due famiglie, i veneziani offrono ancor oggi il boccolo rosso alla propria amata.


PS: si dice che in parte questa storia sia servita al Bardo William Shakespeare per partorire i suoi Romeo e Giulietta

giovedì, giugno 21, 2007

Misteri e Storie di Venezia

Il Bocòlo di San Marco


Il 25 aprile a Venezia si festeggia San Marco, ossia il patrono della città. E' una festa solenne e molto sentita dai veneziani. In questa data è uso che le fidanzate in particolare e le spose ricevano dall’uomo amato l’omaggio di una rosa (“bocolo” in dialetto) di colore rosso ardente.

E’ una tradizione radicata in città che si rifà a due leggende. Una in particolare è una romantica storia d’amore e di morte che si ricollega al ciclo carolingio dell'Orlando. Questa versione è di origine sicuramente popolare, perché non suffragata da alcun puntello storico.

Vuole questa tradizione che l’usanza abbia avuto origine dallo sfortunato amore di una nobildonna Maria Partecipazio, figlia di un patrizio veneto (o addirittura di un Doge), soprannominata Vulcana, per un trovatore di nome Tancredi. Tra i due giovani l’amore è contrastato per la diversità di casta. Per superare l’ ostacolo che impedisce le nozze, Vulcana trova un espediente: convince Tancredi a partire per la guerra che l’Imperatore Carlo Magno combatte contro i Mori di Spagna.
Il giovane si distingue per il suo valore e la fama delle sue imprese giunge anche a Venezia; tuttosembra volgere al meglio, ma uno sfortunato giorno, durante una battaglia, Tancredi è ferito a morte e cade sopra un roseto che si tinge di rosso con il suo sangue. Prima di morire egli coglie un boccolo e prega Orlando di portarlo alla sua amata a Venezia. Il paladino di Carlo, fedele alla sua promessa fatta al moribondo, parte ed arriva nella Serenissima la veglia del giorno di S.Marco e consegna il fatale pegno d’amore a Vulcana che lo riceve senza lacrime, impassibile.

La sera, la fanciulla, si ritira nelle sue stanze. La mattina seguente, trovano Vulcana mortacon il bocciolo rosso posato sul cuore. Da quel giorno, prosegue la leggenda, il “bocolo” simbolo dell’ amore che sta per aprirsi alla vita, viene offerto dagli uomini veneziani alle loro amate.

domenica, giugno 17, 2007

Misteri e Storie di Venezia

Palazzo Mastelli e la storia dei 3 fratelli






In Campo dei Mori, Sestiere di Canareggio, c'è Palazzo Mastelli. E' facilmente riconoscibile da un bassorilievo di un cammello sulla facciata che dà verso Madonna dell'Orto.




In quel Palazzo vivevano 3 fratelli che nel lontano 1100 giunsero a Venezia dalla Morea (si suppone una regione vicina all'attuale Peloponneso), e per quello li chiamavano Mori.



I 3 fratelli erano abili mercanti di stoffe preziose ed aprirono la loro bottega alla base del Palazzo. Rioba, Afani e Sandi -così si chiamavano- erano tanto portati per gli affari che i veneziani cominciarono a chiamarli "Mastei" (ovvero "secchi", ad indicare i catini che essi sapevano riempir di monete ad ogni affare)... da qui il loro "cognome" popolare: Mastelli, che die' nome al Palazzo.






La leggenda narra che non fossero tra i commercianti più onesti e una donna rimasta vedova volle metter alla prova la loro onestà. Ella si recò dai tre fratelli chiedendo loro delle stoffe nobili per rimodernar il proprio negozio appena ereditato dal defunto marito. Era sera ed il garzone di bottega se n'era già andato.
I 3 fratelli, credendo la donna una sprovveduta e fiutando l'affare, cercarono di rifilarle stoffe di infima qualità a prezzi da broccato. Tuttavia Lei che era assolutamente pratica di sete e mercanzie del genere si accorse immediatamente della proponenda truffa.



Racconta la leggenda che la donna li maledì, pronunciando il nome di Dio e mettendo nelle loro mani delle monete.



Come i tre mercanti toccarono le monete, queste divennero di pietra e, poco dopo, medesima sorte toccò a loro stessi.






L'indomani mattina, a Campo dei Mori, il garzone trovò la bottega aperta, dei tre fratelli nemmeno l'ombra ma solo tre statue di pietra che somigliavano in tremenda maniera a Rioba, Afani e Sandi

venerdì, giugno 08, 2007

Misteri e Storie della Laguna





Il fondo dei 7 morti



E' una zona della laguna un poco più a nord di Chioggia, vicino alla riva. Il nome, assolutamente poco felice, deriva da una leggenda risalente alle epoche in cui il lavoro in mare, per i pescatori di Chioggia e Venezia, era tanto necessario quanto pericoloso.
La storia narra di 7 uomini, sette pescatori, che erano a bordo del loro bragozzo ormai da ore, intenti a lanciar le reti a mare e a ritirarle a bordo gonfie d'acqua e di pesci. Sudore, muscoli tesi e sguardi resi duri dal lavoro e dalla fatica.Ad un tratto, la rete si fa pesante: è segno che si è pescato finalmente qualcosa di degno. I volti bruciati dal sole si tendono lievi al sorriso, dopo tutto quel tempo...




OOoooissa! Oooooissa! e pian piano, con gran forza di braccia, issano le reti pesanti... ma il sorriso si spegne subito: impigliato tra le maglie c'è il corpo di un annegato. Non è la prima volta che si ritrovano a pescare il cadavere di qualche povero sventurato e, quindi, la cosa non li turba molto, se non fosse che, superstiziosi, lo prendono come rpesagio di sventura: non si liberano subito del corpo, ma lo appoggiano dentro il bragozzo, vicino all'albero.
Cominciano di nuovo a darsi da fare con le reti, i 7 uomini, ma è un attimo e il cielo si scurisce, comincia a soffiare il vento e a mugolare il tuono. In breve lampi sinistri cominciano a illuminare il cielo dell'imbrunire, fino allo sfogarsi della bufera. La piccola barca beccheggia tra le onde schiumanti ed è solo per l'abilità dei 7 che non si rovescia.La tempesta si placa quando la piccola imbarcazione raggiunge l'imboccatura di una valle da pesca e, nell'oscurità, s'intravede il lume di un casòn*, dove si supponeva si sarebbe trovato cibo e ristoro.



Invece, nel casòn, in quel momento c'è solo un ragazzino, tale Zanetto che, orfano, era stato abbandonato lì dai suoi padroni. Zanetto è in quel casòn già da qualche giorno, lui e il suo cane, in balìa di se stesso, pieno di fame, di fredo e di paura. Quando vede entrare i 7 pescatori, Zanetto si leva dal suo piccolo giaciglio, tutto speranzoso... ma la speranza dura poco quando vede i visi truci di quei 7, per i quali Zanetto sembra non esistere. Entrano, accendono un fuoco, mettono a bollire dell'acqua per far della polenta con la poca farina raccimolata. In tutto ciò nemmeno rivolgono la parola a Zanetto. La polenta è pronta: i 7 la rovesciano direttamente sul tavolo e cominciano a spartirsi il pasto fumante, mentre Zanetto dal suo angolo, stringendo il cagnolino, li guarda zitto e tremante, con l'acquolina in bocca.



Ma poi al fame fa trovar a Zanetto il coraggio. S'avvicina al tavolo e chiede d'aver una fetta di polenta. All'inizio i 7 non lo badano nemmeno, poi, quando Zanetto tenta d'allungar la mano sul tavolo, uno gli afferra il polso e gli dice: "Fermo lì, se vuoi guadagnarti la tua fett, vai in barca e chiama il nostro compagno che s'è addormentato!"
Zanetto corre fuori come un pazzo, tra le risate grasse di scherno dei 7 uomini e le loro gran pacche sulle spalle.Zanetto arriva in barca, vicino all'albero e trova l'uomo che sembra dormire del sonno dei giusti: lo squote, ma nulla. Allora torna dentro e racconta ai 7 che l'altro non ha intenzione di svegliarsi e supplicandoli di dargli qualcosa da mangiare che sta morendo di fame. Niente da fare: ancora gli dicono che deve svegliare quello in barca o nulla.
Zanetto torna in barca, scuote l'uomo, piange e supplica: "Vi prego, vi scongiuro, signore, svegliatevi! Se non venite dentro con me i vostri amici non mi daranno niente da mangiare e io sto morendo di fame!"Ed ecco che il morto volta la testa, apre gli occhi, guarda con tenerezza il ragazzo e si alza. "Va bene, entriamo -dice- fa strada tu"



Zanetto si avvia al casòn, varca la soglia e i 7 lo guardando beffardi: "E allora?" e Zanetto risponde: " Sta arrivando, adesso viene!"Gli uomini scoppiano a ridere d'un colpo solo. Ma quando alle spalle del ragazzo appare il morto, il riso di colpo muore e le facce si fanno terree. Qualcuno cade in ginocchio ed invoca pietà.
E' allora che il morto punta il dito contro i 7 e dice: "Chi fa soffrire un innocente senza ragione e non ha compassione delle disgrazie altrui, non merita misericordia e pietà. Voi siete la eprsonificazione dei sette peccati. Sia salvo il bambino che è l'innocenza, sia salvo il cane che è la fedeltà!" E puntando l'indice scarno nomina ad uno ad uno questi peccati e ad ogni peccato uno dei 7 cade a terra morto.Alla fine attorno al tavolo restano solo 7 cadaveri senza vita... Sette morti, vittime della loro stessa durezza di cuore.


*Casòn: i casoni sono le tipiche rimesse per la pesca delle lagune venete. Di solito riconoscibili per il tetto conico fatto di canne.

mercoledì, febbraio 07, 2007

Misteri e Storie di Venezia...

La fossa numero 6

Era il 1935 che a Venezia cadde ammalata Suor Vittoria Gregoris. Seppur la malattia fosse molto dura e logorante, la pia donna la sopportava con eroica pazienza ed un pizzico di buonumore. Si racconta che a chi le diceva che sarebbe morta in odore di santità, la su orina rispondeva che, semmai, sarebbe morta in odor di muffa.
Morì a 61 anni, dopo però aver turbato la vita del monastero con una frase inquietante pronunciata sul letto di morte, quando tutte le sorelle le erano radunate attorno per l’ultimo saluto: “Al momento della riesumazione, la mia salma non si troverà…”

Gli anni trascorserò, ne passarono 12, finchè le pubbliche autorità procedettero alla riesumazione nel corpo. Era il 1947. Ecco cosa scrisse il Gazzettino della Sera in quell’anno:

“La cassa non serbava nessuno resto umano della defunta religiosa: né una tibia, né le vertebre, nemmeno il cranio. C’erano soltanto, sparsi qui e là, dei minutissimi frammenti ossei polverizzati, in quantità così trascurabile quale mai si è vista nel corso di una riesumazione.”

Immaginate la faccia dei disseppellitori quando, scoperchiata la bara, che vi trovarono solo dei pezzi di velo, un po’ di stoffa e un crocifisso, ma del corpo della suora nemmeno una vaga traccia. Soprattutto s’immagini lo scompiglio in città, quando venne diffusa l’effettiva predizione fatta dalla suora in letto di morte. Subito fu battezzato come il mistero della fossa numero 6: fossa ancora esistente a San Michele in isola, ossia l’isola a nord di Venezia, visibile dalle Fondamenta Nuove, ove si trova il cimitero della città lagunare.



Spiegazione logica o evento soprannaturale? Non si saprà mai, essendo che il mistero della fossa numero 6 è rimasto a tutt’oggi irrisolto…

martedì, gennaio 16, 2007

Misteri e storie di Venezia...

Il tesoro della Serenissma

C`è un`isoletta, vicino alla bocca da porto di Sant`Andrea che oggi giorno è disabitata ed ospita un bel parco attorno ai ruderi dei tempi che furono. E` l`isola di Certosa.
Fin dal 1422, infatti, quest`isola era stata sede di monasteri e chiese di cui oggi rimangono solo pallide spoglie e decadenti vestigia. Il suo declino coincise con lo sbarco di Napoleone in terra Serenissima, nel 1797, quando cominciò a laicizzare Venezia a suo modo, facendo sbaraccare conventi e monasteri nelle isole della laguna.



L`occupazione Napoleonica di Venezia, la prima occupazione che la laguna subiva nella sua storia secolare (nemmeno Attila c`era riuscito), fu altresì pesante per la Repubblica Serenissima, si pensi che l`Imperatore dei Francesi cominciò a depredarla accuratamente e con metodo. Fece incetta di reliquiari, fondendoli presso la Zecca. Depredò l`Arsenale e la flotta marciana. Tradizione vuole che Napoleone portò a casa un gruzzoletto pari all`80% delle ricchezze veneziane dell`epoca. Insomma: uno sfacelo!

Si narra, però, che i tre senatori della repubblica marinara, che sovrintendevano al cuore mercantile e monetario della stessa, misero al sicuro le risorse auree di Venezia. Si suppone quindi un tesoro inestimabile. Così, mentre i francesi fondevano le reliquie trafugate presso la Zecca, l`oro di Venezia s`involava presso un nascondiglio segreto, in attesa di tempi migliori... che non giunsero più.
Molti dicono che questo posto coincida col "chiostro piccolo" dell`isola di Certosa, dove furono sepolti i tre Senatori. nelle loro tombe di famiglia, pertanto, leggenda vuole che giaccia ancora oggi quel che del tesoro della Serenissima fu salvato dalle grinfie napoleoniche....

...e poi ci si chiede perchè è stato così godurioso vincere i Mondiali contro la Franciaaaa????? ^__*

giovedì, gennaio 04, 2007

Misteri e storie di Venezia...

Bepi del giasso, campanaro di San Lazzaro

C`è una bella isoletta in laguna nord, scampata alla ventata laicizzante portata da Napoleone in Laguna: San Lazzaro degli armeni. In quest`isoletta c`è ancora il vecchio convento di rito cattolico-armeno che, nato nel 1717 come ospizio per i pellegrini, nel 1810, fu elevato ad Accademia delle Scienze. Venezia, infatti, da Caterina Cornaro in poi, ha sempre avuto ottimi rapporti con gli armeni.
Che il convento sia scampato ai francesi è cosa rara visto che, Napoleone giunto in Venezia, tra le tante cose cominciò a smantellare i vari conventi-monasteri delle varei confraternite-sette che avevano trovato comodo rifugio e riparo nelle isolette della laguna veneziana... ma questa è un`altra storia...


Aveva 28 anni, allora, Josif Vissarionovic Djugatchsvili. Era un giovanotto che veniva dalla Russia zarista, dalla Georgia, in particolare, a cercar fortuna nel mitico Bel Paese. Aveva la barba incolta quando giuse, raccontò in seguito l`abate di San Lazzaro.Era il 1907 e nella sua Russia non aveva vita facile, essendo un esponente di primo piano di quella frangia estremista del partito socialdemocratico russo, che la storia comunemente ha poi chiamato bolscevichi.Fu, infatti, per scappare alle grinfie della polizia zarista che quell`anno riparò in Italia, partendo nascosto, di soppiatto, da una nave da carico mercantile che trasportava granaglie da Odessa ad Ancona, dove sbarcò verso la fine di febbraio.

Cominciò a lavorare come portiere d`albergo, ma col carattere chiuso e timido che si ritrovava, ben presto cambiò città, imbarcandosi nuovamente clandestino da Ancona a Venezia. Fu nella città di laguna che gli anarchici della zona lo accolsero e lo battezzarono "Bepi del giasso" (Bepi del ghiaccio), a ricordare che non veniva certo da climi tropicali.
A Venezia gli tornò utile la sua conoscenza dell`armeno e l`aver studiato alla scuola teologica di Gori e nel seminario cristiano.ortodosso di Teflis. Tanto che quando si presento a chieder ospitalità e lavoro all`abate generale di San Lazzaro, allra Ignazio Ghiurekian, Bepi poteva contare sul fatto di saper servire messa secondo i rituali latino ed ortodosso, nonchè di suonare le campane con i rintocchi richiesti da entrambe le confessioni.

Fu così che Bepi del giasso rimase per un po` a San Lazzaro degli armeni a far da camparo. Andava tutto bene, non fosse che l`abate voleva suonasse le campane secondo rito latino, mentre Bepi s`intestardì a suonarle secondo rito ortodosso.
Tutto ciò creò un certo scompliglio nella piccola isola, finchè l`abate mise Bepi dinnanzi ad una scelta: se desiderava rimanere in quell`isola che gli dava ospitalitò, doveva accettare le norme della congregazione e chiedere l`ammissione alla comunità come novizio. Non fu questa la scelta del georgiano che ripartì, lasciando Venezia.

Tornò in Russia in tempo per la rivoluzione e, qualche anno dopo, divenne ... Segretario generale del partito comunista e guida dell`Unione Sovietica col soprannome di "Piccolo Padre"...
Ebbene sì, di quel Bepi del giasso che fu per breve tempo campanaro di San Lazzaro, ne abbiamo sentito parlare tutti... ma di solito non lo si chiama per nome, Josef, ma per pseudonimo... Stalin.

...e ogni tanto vien da chiedersi perchè quell`abate non abbia chiuso un occhio e se lo sia tenuto a far da campanaro...