sabato, settembre 30, 2006

Misteri di Venezia...

Campiello del Remer - Rialto -

Nei pressi del Ponte di Rialto, e più precisamente in Campiello del Remer, affacciandosi sulla riva lungo il Canal Grande si potrebbe assistere ad una scena agghiacciante: il corpo che affiora dall’acqua di Fosco Loredan con la testa di sua moglie Elena.

La vicenda si è svolta nel 1598.


Protagonisti della storia:
il doge di Venezia Marino Grimani ( zio della vittima),
la nipote Elena
il marito della nipote Fosco (uomo assai geloso)


Una sera mentre il doge passeggiava per la città, sentì una donna gridare: era inseguita da un uomo armato di spada. La donna fuggiva verso Campiello del Remer. Il Grimani intervenne tosto e, raggiunti i due, riconobbe la nipote e il marito di questa. Fosco giustificò il suo gesto dicendo che Elena lo aveva tradito.



La donna si difese sostenendo che la sua gelosia era infondata, dato che l’uomo, di cui il marito si mostrava geloso, era semplicemente suo cugino. Anche se la situazione sembrò acquietarsi, ad un tratto Fosco si scagliò contro la moglie e la decapitò ferocemente. Placata l`ira e preso dai rimorsi, si rivolse al doge chiedendogli quale dovesse essere il suo castigo.
Grimani gli rispose che doveva recarsi a Roma dal papa per avere l’assoluzione, ma doveva portare con sé il cadavere della moglie e la testa. Arrivato a Roma il pontefice non volle neppure riceverlo. Fosco ritornò a Venezia e recatosi nel luogo dove aveva commesso quell’atroce delitto si gettò nel Canal Grande. E’ da allora che il corpo di Fosco riemerge, tenendo tra le mani la testa di Elena…..

lunedì, settembre 25, 2006

Misteri e storie di Venezia...

El Casìn dei Spiriti...

A lato delle Fondamente Nove, nella zona vicino alla Madonna dell’Orto, si trova Palazzo Contarini dal Zaffo; del complesso fa parte il Casino degli spiriti, chiamato così perché da secoli ritenuto un luogo di ritrovo di spiriti irrequieti.
Sembra che di notte si vedano luci ondeggianti di candele, e si sentano suoni che si spandono nella laguna con una forte eco.




Secondo alcuni si ritiene che nei saloni del palazzo si tenessero delle cerimonie magiche, e che gli adepti di qualche setta facessero sedute spiritiche ed invocassero demoni.
Ma lo spirito più famoso, che infesta la casa, dicono sia quello di Luzzo pittore del “500, che in quelle stanza si incontrava con Giorgione, Tiziano, Sansovino. Luzzo è morto suicida per un amore non corrisposto da una delle amanti del Giorgione, Cecilia.


Tuttavia un`altra e oscura leggenda si lega a quel luogo:


Nel periodo seguente la seconda guerra mondiale Venezia, come nelle altre città italiane, viveva un brutto momento fatto di fame e miseria. In quegli anni era vivo il fenomeno del contrabbando di sigarette fatto di fughe e rincorse tra le barche della Finanza e le velocissime barchette blu a fondo piatto dei contrabbandieri locali.
Linda Cimetta era una donna che spesso arrivava a Venezia per comperarne un po’ e contrabbandarle a Belluno dove viveva col marito. In città non era ben vista perché si diceva facesse anche la prostituta. Dopo un po’ di lei non si seppe più nulla. La polizia indagò sulla sua scomparsa e venne a conclusione che Linda era stata vittima di un omicidio. Vennero pure trovati i colpevoli rei di averla uccisa con una scure, segata a pezzi, messa dentro un baule e gettata in mare.
In quei giorni alcuni ragazzi si tuffarono dalla riva delle Fondamente Nove e trovarono un baule pieno zeppo di seppie e granchi. Con la fame che c’era immaginatevi il parapiglia. E immaginatevi pure cosa successe quando tra una seppia e l’altra emerse il corpo fatto a pezzi di una donna. D’ora in poi nessun veneziano si sognerebbe mai di andare a pescare da quelle parti, vuoi per tradizione, rispetto, paura.

sabato, settembre 23, 2006

Misteri e storie di Venezia....

La Malcontenta e la sua Dama Bianca

Risalendo il Brenta, ad un certo punto, ci si imbatte in una celebre villa palladiana dallo strano nome: La Malcontenta.

Narra la leggenda che erano gli anni del Settecento veneziano quando una Nobildonna della famiglia Cornaro fu allontanata dalla propria famiglia in questa villa, in una sorta di esilio. La nobildonna, inffatti, era venuta a macchiarsi, in Venezia, di una vita dissoluta e libertina al punto di far pesar un po` troppo il capo al suo povero congiunto marito...

Tuttavia, allontanata dalla vita cortigiana e fastosa a cui era dedita, la Nobildonna non riusciva ad adattarsi alla quieta monotonia della vita in campagna, concludendo la propria esistenza in una malinconica depressione.
Da allora in molti giurano di aver visto aleggiare per il parco nella villa, nelle notti di luna nuova, l`ombra di una splendida donna dai capelli rossi, vestita di bianco: La Malcontenta!

venerdì, settembre 22, 2006

Misteri e storie di Venezia...

Ca` Dario. La Casa Maledetta!

Giovanni Dario, un dalmata di famiglia non nobile, cominciò la costruzione di uno dei più belli e particolari palazzi sul Canal Grande. Su disegno di Pietro Lombardi , ornato di marmi policromi, D`Annunzio lo descrisse sbilenco come una vecchia prostituta. Questo palazzo non ha mai goduto di una buona fama.
Il Giovanni andò ad abitarci con la figlia illegittima Marietta la quale sposò il nobile Vincenzo Barbaro. Cominciarono i primi guai: a Vincenzo andarono male gli affari, andò in rovina e Marietta morì di crepacuore.


Col passare degli anni il palazzo passò ad un ricco armeno, commerciante di pietre preziose. Anche lui dopo un po` di tempo andò in fallimento e, poco dopo, morì.
Nella metà dell` 800 un inglese andò ad abitarci: stessa storia. Andò in rovina e si suicidò. Stessa fine la fece il suo amante.

Passano gli anni e a Cà Dario ci abitò un ricco signore americano, per storie non chiare andò ad abitare in Messico dove il suo amante si suicidò.
Nel 1970 l`amante del conte proprietario del palazzo lo colpì alla testa. Fuggì a Londra e fu a sua volta assassinato.
Morì suicida anche il manager del complesso rock "the Who". Aveva da poco acquistato il palazzo.
Anni `80. Un uomo d`affari veneziano comprò il palazzo, solito tracollo degli affari e sua sorella fu trovata morta.

Tra i proprietari più recenti son figuarti anche Fabrizio Ferrari, che non ha fatto una bella fine... Anche Mario del Monaco era interessato a Cà Dario ma fu proprio un incidente stradale durante un viaggio per le trattative dell`acquisto, che gli fecero pensare che fosse stato meglio rinunciare all`acquisto.
Venne la volta di Raoul Gardini che, come tutti sapranno, era il proprietario di Cà Dario e del Moro di Venezia, la barca a vela da regata che voleva vincere la coppa del mondo. E come tutti sapranno morì suicida... da allora nessuno ha più voluto comprare questo palazzo, che ancora appartiene alla famiglia Gardini...
bbbrrrrrrrrrrr brividi e raccapriccio :P eppure a vederlo sembra così carino... innoquo!



ah! Narra la storia che tra i proprietari che si salvarono, in tempi recenti, spunta il nome di Woody Allen... qualcuno dice che fu perchè ne rimase proprietario per troppo poco tempo, sbarazzandosene subito, saputa la storia... ma i veneziani più spesso dicono che, in effetti, tra Woody Allen e Ca` Dario era una bella lotta a chi portava più sfiga! eheheheh



giovedì, settembre 21, 2006

Ricordo d`infanzia:

la mia ninnananna

Giusto l`altro giorno mi son ricordata della ninnananna che mi cantava il mio papy quand`ero piccola... la sera...L`ho ritrovata oggi...e ho sorriso a rileggerla... per me è un ricordo di bimba e spero non se la prenda nessuno... ma mio papà mi cantava questa canzone qui...

Cara Moglie
(Ivan Della Mea)


O cara moglie stasera ti prego
Dì a mio figlio che vada a dormire
Perchè le cose che io ho da dire
Non sono cose che deve sentir

Proprio stamane là sul lavoro
Con il sorriso del caposezione
Mi è arrivata la liquidazione
M`han licenziato senza pietà

E la ragione è perchè ho scioperato
Per la difesa dei nostri diritti
Per la difesa del mio sindacato
Del mio lavoro della libertà

Quando la lotta è di tutti per tutti
Il tuo padrone lo sai cederà
E se lui vince è perchè i crumiri
Gli dan la forza che lui non ha

Questo si è visto davanti ai cancelli
Noi si chiamava i compagni alla lotta
Ecco il padrone fa un cenno una mossa
Un dopo l`altro cominciano a entrar

O cara moglie dovevi vederli
Venire avanti curvati e piegati
E noi a gridare "crumiri venduti"
E loro dritti senza guardar

Quei poveretti facevano pena
Ma dietro a loro là sul portone
Rideva allegro il porco padrone
Li ho maledetti senza pietà

O cara moglie io prima ho sbagliato
Dì a mio figlio che venga a sentire
Che ha da capire che cosa vuol dire
Lottare per la libertà

...poi la gente si chiede perchè son cresciuta
così...

martedì, settembre 19, 2006

Venezia... la mia perla!



Io sto in un paesino piccolo piccolo che la sera si vedono le stelle. Torre di Mosto.
Sto in un paesino rinchiuso tra campi di mais e vigneti e campi di soia.
Sto in un paesino che era Palude e dove i contadini,
scappando dagli eserciti, si son rifugiati secoli orsono,
tra canne e zanzare, pur di vivere in pace... chè la guerra qui non arrivava...
In un'isola che si chiamava Melidissa...





Ma la mia città sta poco più in là, verso dove il sole muore. Venezia.
E' una città nata nel medesimo modo in cui nacque il mio paesino:
si narra che venivano gli Unni e i contadini fuggivano verso la laguna, oltre le paludi,
in quelle isole tra terra e mare in cui solo loro conoscevano le vie
per non affondare o rimaner incagliati nel fango.

L`unica città medievale senza mura in tutta Europa.


E` la citta che visse d`amore e commercio,
mentre nel resto d`Italia si moriva di guerre e carestie.

Ora ha un fascino decadente, tutto suo, della grande Cortigiana d`un tempo:
con il suo trucco abbondante e i merletti consunti
che molle se ne sta stesa in braccio al suo mare, che mare non è...

Eppure la sua malìa senza tempo incanta chiunque le capiti in seno.
La scaltra e vecchia maliarda ha saputo frenare il tempo, assopirsi in un limbo sospeso...
Non ci sono auto, nè smog, nè semafori... solo barche, barconi, vaporetti
Non ci sono grattacieli, tram, metrò... solo ponti, Fonteghi e campielli
I bambini giocano a palla per strada e l`unico pericolo è che finisca in acqua
Per le vie e per le piazze, che vie e piazze non si chiamano , c`è il mercato permanente
dove le vecchierelle scendono sc`iabattando tranquille tra le orde di turisti,
e anche le barche, ormeggiate in bordo ai canali, son riadattate a bancarelle di verdura e frutta dall`animo mercantile mai morto nè mai domato di questa gente...

Gente che vive, sospesa nel tempo, in questa città decadente, fatua e magnifica
che è bella quando c`è il sole, che è bella quando piove
che è bella sotto la nebbia, che è bella sotto la neve...

Gente che vive in questa città che non si conosce mai del tutto,
che ha una storia nascosta ad ogni angolo...

Gente che vive nella città che fu di grandi navigatori e sognatori ed amatori ed artisti,
dove nel cuore ha le cupole verdi e l`oro di San Marco che risplende acceso...

Di questa città mi piacerebbe raccontarvi le storie...

lunedì, settembre 18, 2006

La chiamerò Loona .1.


Da tempo gioco in una comunità virtuale (extremelot prima e dreamalot poi), a fine agosto erano orami 5 anni. Beh mi son decisa di mettere per iscritto la storia del personaggio di cui da 5 anni muovo i fili: l'elfa Loona. Spero vi piacerà.



Parte prima - Gli Inizi

1. Tutto inizia – Il ritrovamento

Era una notte tiepida e chiara di metà primavera. La luna splendeva alta nel cielo, illuminando piena gli aghi scuri dei pini dormienti, nella vasta foresta del nord. A Elanor risultava piacevole l’andare per quei sentieri nascosti e solitari, bagnati dalla luce lunare. Il silenzio tutto d’attorno, della natura assopita, era interrotto a malapena dal frinire di qualche piccolo insetto notturno o dallo strisciar, nell’ombra, di quegli esseri che vivon la notte e dormono il giorno. Il solitario vagabondaggio, nel pien del bosco quieto, si accompagnava facilmente a pensieri limpidi e grandi, che quasi si potevano toccare, e a ricordi del tempo trascorso, tanto vivi da sembrar presenti e mai passati.


Elanor andava riflettendo sulla strada che l’aveva condotta a quel bosco. Tirava una boccata di fumo dalla sua pipa, con la brace che s’accendeva di rosso nell’ombra del bosco, e rimuginava sui giorni trascorsi d’appena e su quelli da lungi andati, da quando aveva lasciato il suo villaggio per amor d’avventura. I suoi piccoli piedi pestavano il sottobosco muschioso e zitto, mentre tutto di lei era assorto nel figurarsi alla mente il giorno in cui, sacco in spalla, aveva salutato Val di Sole e s’era messa in marcia, aggregandosi ad un gruppo di zingari. I primi tempi non furono affatto facili e quelli a seguire ancor meno. Quand’era partita, tradita dall’indole sua impulsiva, non si era soffermata forse abbastanza su quel che voleva dire una vita vagabonda. Lei, poi! Sempre abituata entro i placidi confini della sua verde e bella valle, nel meridione.


“Ma ti sei del tutto ammattita?!?” le aveva urlato Pizzina, mentre la rincorreva per i cunicoli di casa, impedendole di far i bagagli, per quanto poteva “ma quando mai s’è sentito d’una nanetta predere e partirsene per il mondo! Con quella gentaglia poi! Non li conosci nemmeno…”
“Sì che li conosco… li conosco quanto serve conoscerli!” aveva tentato di protestare lei.
“Ma fammi il piacere!” aveva ripreso Pizzina, che non sentiva ragioni “Tu, sola, con quelli in giro per il mondo! E dove dormirai? Cosa mangerai? E poi! Partire così, senza nemmeno avvisare i tuoi… aspettali almeno.. avvertili… Elanor!!! Ma mi stai a sentire?!?”
Se la ricordava talmente bene Pizzina, tutta rossa in viso e con le treccione bionde che sbattevano a destra e a manca contro gli usci e i mobili, mentre le girava attorno come una trottola, nel tentativo di dissuaderla. E lei, Elanor, rimaneva convinta e decisa: “Ho detto che parto e partirò! Mi rifiuto di morire in questo buco sperduto senz’aver messo il naso fuori. E no, non posso aspettarli o non schioderò mai! Figurati! A lavorar come nonna vogliono mettermi! Ma scherziamo?!? A ingobbirmi e rovinarmi le mani!!! Aaaaah! Non se ne parla!”
“Degna nipote di tuo nonno sei! Testoni uguali siete! Mai che vi si possa far ragionare! Un’idea vi fissate in testa e quella resta! - brontolava l’amica e poi riprendeva con tono supplichevole- Elanor, ti prego! Fermati un attimo a pensarci: Valle di Sole! Stai per lasciare Valle di Sole! Con i suoi campi belli e coltivati, gli usci colorati e bassi ad ogni pietra, i giardini fioriti, le siepi…”
“Siepi! –aveva tuonato- Ecco! Confini e limiti… non voglio rinchiudermi! Voglio vedere tutto quel mondo oltre Valle di Sole, dove non ci sono siepi e si respira la libertà!” ed era praticamente fuggita di casa, con Pizzina disperata che non sapeva a che santo votarsi e che sperava, in tutto cuore, che la follia dell’amica sarebbe terminata in tempi brevi.


Elanor sorrideva all’idea: tempi brevi non eran certo stati! Dopo quattro mesi era tornata a casa, ma ne era ripartita nel giro di quindici giorni. E così qualche altra volta, tuttavia il tempo che rimaneva a Valle di Sole si riduceva sempre più e l’intervallo tra una rimpatriata e l’altra diventava sempre più lungo. Le era cresciuto in cuore l’amore per i viaggi, per i posti nuovi. La prima compagnia di vagabondi l’aveva iniziata alla vita di strada e lei se ne era innamorata. Dopo quattro mesi era ritornata non tanto per nostalgia, quanto per vedere come stavano i suoi: si sentiva un po’ in colpa per il modo in cui li aveva abbandonati. Erano bastati, però, pochi giorni a farle rimpiangere la vita randagia di tutto cuore!
Già da trent’anni non metteva più piede a Valle di Sole e la cosa non le dispiaceva più di tanto. In fondo i viandanti per via le portavano notizia della sua terra, di quando in quando, e questo le bastava. Per strada s’era unita, di volta in volta, a diversi gruppi di girovaghi e, ultimamente, aveva scoperto il piacere di viaggiar anche sola. Si domandava, tuttavia, come poteva essere, ora, la faccia di Pizzina e dei figli che sicuramente aveva avuto. Si domandava chi poteva aver sposato e si sorprendeva a domandarsi quando e se anche lei avrebbe mai scoperto le gioie domestiche, tanto osannate a Valle di Sole.


D’un tratto lo scorrer dei pensieri venne interrotto: qualcosa turbava il silenzio placido della notte di primavera. Le orecchie tozze della nana vibrarono un poco e lei si fermò di colpo, aggrottò le sopracciglia folte e corrucciò la fronte in un’espressione attenta e dubbiosa: supponeva d’essersi confusa e, nel suo riflettere, d’aver inteso altro, rispetto a quanto s’udiva. No, no! Non si era sbagliata: era proprio un pianto quello che tagliava la pace della foresta e un pianto disperato.
Si guardò intorno e si rese conto che, passeggiando assorta e pensosa, aveva perso la cognizione di dov’era e smarrito l’orientamento: in sostanza si era persa!
Un moto di stizza la colse: “Dannazione! –brontolò- Persa, in mezzo ad un bosco, in piena notte e pure con qualcuno che piange! Aaaaah! Dannazione dannazione! –poi al disappunto subentrò la curiosità- ma chi è che piange? –e ripetè più forte- Hey! Chi va là? Chi piange?”
Nessuno rispose, solo continuava il pianto disperato. Elanor si mosse, quindi, attraverso gli sterpi, in direzione di dove sentiva singhiozzare. Donna di mondo e resa poco avezza, dal viaggio, al parlar forbito, imprecava ad ogni ramo che le strisciava addosso, ora che stava fuori dal sentiero battuto, e borbottava minacciosa contro ogni ragnatela che le appiccicava il viso. Il tutto veniva sbiascicato a mezza bocca, perchè badava bene di non perder la sua pipa che, ostinatamente, teneva tra i denti attraversando il fitto della macchia.


Più si addentrava nel fitto, più il pianto pareva farsi prossimo, più il senso di oppressione, datole dai tronchi rugosi e scuri tutti vicini, dall’erba alta e pruriginosa, dal pungitopo avvolto di ragnatele e pizzicoso, la irritava. “Ma santa patata! –sbraitò d’un tratto, levandosi con la mano tozza l’ennesimo insetto che sentiva scorrerle giù per la nuca- bestiac..” e la pipa le cadde di labbro un poco più in là, oltre il cespuglio che si apprestava a guadare. Il pianto si interruppe di botto, quasi impaurito dal vociar tirannico della nana. Elanor si fece largo, quindi, tra gli ultimi sterpi, uscendone con i capelli scuri e crespi che avevan fatto incetta di foglie e rametti e parevan un cespuglio a loro volta. Non si fermò nemmeno a raccoglier la pipa che le stava praticamente accanto ai piedi, ma alzò i piccoli pugni goffi a stropicciarsi gli occhi.


Stava, in mezzo ad uno spiazzo sgombro e indorato dalla luna bianca, tra gli alti pini scuri, una cesta che pareva brillar d’argento. Elanor rimase ferma, dapprima, incerta, sollevandosi sulle punte dei piedi a veder che vi fosse nella cesta e tendendo le orecchie ad ascoltar se qualora si fosse udito qualcosa di nuovo. Non si mosse foglia e tutto sembrava esser piombato in un silenzio totale, a tratti inquietante. La nana inghiottì un grumo di saliva, raccolse la pipa, cercando di darsi un po’ di coraggio, e s’accostò alla cesta.
Due occhioni grigi ed arrossati la fissavano da dentro il canestro, tutti timorosi: una piccola creatura stava lì, stringendo forti i pugni alle labbra tremule, avvolta in un panno scuro.